Italia: dal fallimento annunciato al salvataggio in extremis

20 dicembre 2011

manovraGli indicatori macroeconomici del nostro Paese già più di un anno fa avvertivano della possibilità che accadesse il peggio, anche se chi era al governo fino a poche settimane fa ha pensato (e detto agli italiani) che la crisi fosse una situazione transitoria da cui era possibile uscire facilmente. Come successe in passato a Venezia, Genova o Madrid, i contemporanei non si aspettano mai il fallimento del proprio paese. Anche perchè il debito pubblico è radicalmente diverso da quello privato: a differenza di famiglie e imprese, lo Stato sovrano può pagare gli interessi del suo debito senza mai rimborsare il capitale sino a quando i mercati gli danno fiducia. Ma se venisse meno questa fiducia, Stato e regioni non sarebbero più nelle condizioni di finanziare il normale funzionamento dei servizi pubblici fondamentali: scuole, ospedali, esercito, carabinieri, pagamento delle pensioni… E un eventuale fallimento o un ri-scadenziamento del debito significherebbe in concreto la rovina più o meno certa di numerosi contribuenti, lavoratori dipendenti, pensionati e proprietari.

Si tratta di uno scenario purtroppo non irrealistico nell'attuale situazione internazionale, assai preoccupante: mentre l'economia mondiale mostra segnali di rallentamento, il debito pubblico dei paesi dell'OCSE si è aggravato e  anche in Europa ha raggiunto livelli vertiginosi, con i mercati finanziari che continuano a registrare forti tensioni, in particolare all'interno dell'euro, perchè non credono alla capacità dei governi europei di trovare un equilibrio in mancanza di una reale solidarietà finanziaria tra gli Stati membri, al punto da mettere in discussione l'esistenza stessa dell'euro. L'economia italiana risente dell'insieme di questi fattori che si traducono in un indebolimento delle nostre prospettive macroeconomiche, con un ribasso delle previsioni di crescita per il 2011-2014 (0,6 per cento nel 2011, -0,4 per cento nel 2012, 0,3 per cento nel 2013 e 1 per cento nel 2014), con un tasso di disoccupazione all'8,7 per cento nel 2013 e con un forte aumento dei tassi d'interesse sul debito per le recenti tensioni sui mercati finanziari. In questo contesto diventa centrale il tema della sostenibilità del debito sovrano del nostro Paese, che ha già superato il 120% del Pil e grava in modo crescente e minaccioso sulla prosperità delle future generazioni. Le previsioni di un anno fa dell'UE e dell'FMI davano il nostro debito nel 2014 rispettivamente al 128,5% e al 132,2% sul Pil, previsioni che non scontavano ancora naturalmente le manovre dell'ultimo anno e che allo stesso tempo ne giustificano l'entità crescente.

In previsione di un possibile fallimento dell'euro, i mercati finanziari hanno così individuato nel nostro Paese quello che poteva esserne il detonatore, per la dimensione della sua economia ed insieme del suo debito sovrano. Il venir meno della fiducia degli investitori nei nostri titoli di stato si è misurato nel rialzo quest'estate dello spread (lo scarto con i tassi tedeschi ha oscillato intorno ai 400-500 punti base) con il conseguente aumento dei tassi d'interesse sui nostri titoli di stato, che ha reso il finanziamento del nostro debito più doloroso e costoso per il contribuente italiano. E in prospettiva il suo rimborso esigerà la mobilizzazione di un risparmio che non andrà più verso i privati né verso le imprese, ritardando così ancora il progresso tecnico, frenando l'investimento competitivo, la produttività, il potere d'acquisto, il consumo privato e le entrate fiscali, con la conseguenza di innestare un possibile circolo vizioso che ostacolerebbe ulteriormente la possibilità del rimborso del debito stesso.

Jacques Attali, nel suo libro “Come finirà?” (pubblicato nel 2010), prevedeva che gli interessi sul debito italiano negli anni 2011 e 2012 sarebbero ammontati rispettivamente a 79 e 87 miliardi di euro, e nella previsione ci è andato molto vicino. E nonostante il saldo primario del bilancio dello Stato tornerà da quest'anno di nuovo positivo, evitando un effetto a catena, il costo annuale del nostro debito comunque salirà. Attali, nel formulare uno scenario più cupo per noi, rispetto agli altri paesi, partiva dalla considerazione che la situazione dell'Italia è più preoccupante anche per il fatto che la sua popolazione non sembra essere in grado di rispondere agli sforzi richiesti per diminuire drasticamente il livello del debito pubblico, tenuto anche conto che nel 2050 un terzo della popolazione sarà costituito da anziani e l'invecchiamento accelerato farà diminuire automaticamente il livello del risparmio delle famiglie, che a sua volta rallenterà il processo di accumulazione, con effetti negativi sul livello di crescita. Detto per inciso, questa è la ragione fondamentale per cui è necessaria una riforma delle pensioni con l'obiettivo di integrare meglio l'evolversi della speranza di vita con gli anni di contributi versati, ma proprio in questi giorni vediamo quante resistenze vi siano al riguardo.

Ecco la descrizione di Attali dell’eventuale “scenario peggiore”:

“Tra qualche anno al più tardi, felici di essere sfuggite alle loro responsabilità nella crisi finanziaria attuale, le agenzie di rating, analizzando queste previsioni e studiando questi dati, in particolare la parte delle entrate fiscali dedicate al rimborso del debito, si spaventeranno e peggioreranno la valutazione dell'Italia, come hanno già fatto per la Grecia, il Portogallo e la Spagna. A medio termine, l'Italia rischia di subire una sorte simile a quella greca del 2010: la valutazione del debito sovrano italiano sarà suscettibile di essere retrocessa al livello B, che raggruppa gli investimenti speculativi. Lo Stato italiano dovrà quindi remunerare a prezzo ancora più caro il servizio del debito. Gli eventi potrebbero allora prendere una brutta piega.
(...) Un punto di rialzo dei tassi di interesse  si tradurrà in 18 miliardi di euro di servizio del debito in più ogni anno. (…) In un contesto tale, la salita dei tassi d'interesse sul debito porterà l'Italia a indebitarsi non soltanto per rimborsare il debito, ma anche per pagare gli interessi sugli interessi. La trappola in cui si troverà il paese sarà come la corda al collo dell'impiccato.
Lo Stato non avrà più i mezzi per assumersi integralmente le spese del funzionamento dei grandi servizi pubblici né quelle delle pensioni. Il finanziamento degli investimenti necessari per le infrastrutture, le università, le reti numeriche (di comunicazione digitale: ndr), l'energia alternativa, sarà introvabile. Lo Stato non avrà più i mezzi per mantenere l'apparato militare – 1,7% del Pil – né la sua diplomazia.
L'Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale esigeranno che l'Italia riduca drasticamente le spese pubbliche e le prestazioni sociali, che svenda i suoi attivi, che raddoppi l'imposta sul reddito o sull'Iva. Le chiederanno di rimettere in discussione il ruolo di assicuratore dello Stato, cioè di smantellare la previdenza sociale attraverso un sistema di franchigie e di ticket sanitari, di allungare la durata dei contributi per la pensione (oggi di trentacinque anni contro i quarantuno e tre mesi della Francia nel 2013). Questi saranno i principali cambiamenti restrittivi del suo modello sociale.
Se l'Italia si rifiuta, o se non riesce ad attuare queste riforme, dovrà subire l'umiliazione di rinegoziare le scadenze di rimborso del debito. Se accetta, subirà un abbassamento del potere d'acquisto, una forte recessione, un peggioramento della disoccupazione, un calo significativo del livello di vita, rendendo a sua volta più precaria la classe media e aggravando le disuguaglianze. Diminuirà l'innovazione, fatto questo che porterà con sé un calo di produttività e dunque, in definitiva, un calo della produzione e dei fatturati, che renderà ancora più difficile il rimborso del debito.
Si accetterà allora il ritorno dell'inflazione, in modo da ridurre, almeno per il momento, il peso del debito, ma con la conseguenza di un rialzo del costo del suo servizio e, dunque, ancora di una crescita delle imposte.
I lavoratori di domani metteranno di fronte alle loro responsabilità i pensionati di domani, ovvero i  lavoratori di oggi. Rifiuteranno di finanziare le pensioni che i loro beneficiari non avranno predisposto. Con la loro imprevidenza e la loro codardia, nonostante l'inganno, i lavoratori d'oggi saranno dunque le vittime del declino che non avranno saputo evitare. Comincerà una guerra tra generazioni.
Le istituzioni politiche non reggeranno. La classe politica che, per non essersi assunta il rischio di essere impopolare, avrà evitato per più di un decennio di affrontare riforme difficili, verrà maledetta. Gli italiani che avranno rifiutato di subire – e soprattutto di finanziare – tale destino andranno a vivere in un paese economicamente più forte. Nessuno, in Italia, vorrà allora uscire dalla zona euro, cosa che si rivelerà materialmente impossibile. Partiti nuovi o già presenti, anche se in modo marginale, sostituiranno quelli il cui fallimento sarà annunciato, a destra come a sinistra. Altri, infine, ne approfitteranno per disprezzare definitivamente la democrazia, perché sarà servita da trampolino a troppi governanti demagoghi, senza che le misure messe in atto da questi saranno state utili alla maggioranza della popolazione.
Si tratta indubbiamente dello scenario peggiore. Se non si fa niente, si realizzerà nei prossimi dieci anni. Quando esattamente? Nessuno lo sa. Nel 2016, la Repubblica italiana avrà settant'anni, l'età della maturità e della saggezza per ogni regime politico in Europa. (…) Se non ci si muove in tempo, l'Italia si ritroverà irrimediabilmente sprofondata in una crisi di identità e verrà cancellata dalla scena mondiale, come tante altri nazioni dominanti prima di lei e come lei convinte che la grandezza dovuta a un'antica e gloriosa tradizione fosse perenne.
E' possibile evitare questo disastro ancora per alcuni anni. Ma occorre fare in fretta: più il tempo passa, più il debito sovrano aumenta e meno la politica avrà i mezzi pe influire sulla realtà. E' indispensabile cominciare fin da adesso; in ogni caso, prima delle prossime elezioni politiche.”


Ebbene, la crisi del nostro debito sovrano è scoppiata già quest'estate, costringendo il Governo Berlusconi-Bossi a ben due manovre d’urgenza in meno di tre mesi, peraltro giudicate non credibili ed inadeguate dai mercati (e non solo), con la conseguenza di una impetuosa impennata del tasso d’interesse sui nostri titoli di stato, con il conseguente aumento del costo del servizio del nostro debito: da un importo di 70 miliardi di euro pagati per interessi nel 2009 e nel 2010, siamo passati a 77,3 miliardi di euro nel 2011, che secondo le previsioni del Governo saliranno a 94 nel 2012, a 101 nel 2013 e a 105 nel 2014. Si tratta di un dato che permette di comprendere come eravamo già entrati in zona ‘default’: senza la manovra strutturale del Governo Monti la situazione sarebbe drammaticamente precipitata. Anche se questo salvataggio in extremis non ci esimerà dal costo che dovremo pagare nei prossimi anni in termini sia di minori risorse da poter destinare alla crescita,  sia di maggiori tagli alla spesa pubblica ed aumento delle imposte. Dovremo perseguire infatti per lungo tempo un forte avanzo primario per sostenere un tale onere per gli interessi e insieme garantire il pareggio di bilancio (almeno 100 miliardi di euro di avanzo l’anno).

L'eccesso del debito pubblico, da detonatore della nostra rovina, può così trasformarsi a mezzo per prendere coscienza in tempo della sua imminenza, costringendoci a fare i conti con la realtà ed ad assumerci le relative responsabilità, riconoscendo innanzi tutto che esso essenzialmente finanzia le spese utili alle generazioni attuali con i soldi delle generazioni future, che finiscono sempre per pagare in un modo o nell'altro. In fondo questa presa di coscienza è quella che ha portato  all'insediamento del nuovo Governo di impegno nazionale presieduto dal prof. Monti, sostenuto da un'ampia e trasversale maggioranza, con la mission di salvare l'Italia dal default e di impostare in un breve arco di tempo quelle riforme strutturali che la politica italiana non è in stata in grado di fare in decenni.

La manovra ‘Salva Italia’ (predisposta in poco più di due settimane) è pesantissima perché ha dovuto fare i conti non solo con l'impennata dello spread, ma anche con le entrate incerte messe a bilancio nelle precedenti manovre, e presenta anche alcune contraddizioni, visto che deve avere in parlamento il sostegno di forze politiche sino a ieri contrapposte. Ma ha (per ora) fermato la corsa verso il baratro e fatto riacquistare al Paese la credibilità internazionale. La medicina è e sarà amarissima per la maggioranza degli italiani e avrà anche degli effetti collaterali recessivi ed iniqui, ma dobbiamo avere la consapevolezza che, se non fosse stata approvata, le persone, specie quelle più deboli, pagherebbero un prezzo molto più caro. La Lega, passata all'opposizione, cerca di approfittare in modo irresponsabile del malessere popolare, alimentando divisioni e contrapposizioni, ma le deve essere ricordato che questa manovra è frutto del fallimento di oltre otto anni del Governo di Berlusconi e Bossi. Provo una certa rabbia nel sapere  che paghiamo il conto di questa irresponsabilità, oltre che di decenni di classi politiche che hanno raccolto consenso a spese delle future generazioni, politici che ora si godono l'immeritato vitalizio, mentre altri ci devono oggi mettere la faccia.

Era possibile fare di più e meglio in 17 giorni? Non credo, anche se tutti avremmo voluto di più, ma non si può onestamente negare che chi ha di più pagherà di più dopo questa manovra: Certo, non basterà per la crescita e l'equità: dopo la sua approvazione, nei prossimi mesi occorre mettere mano presto alle altre riforme (lavoro, welfare, liberalizzazioni, ecc.) necessarie a rifondare il Paese su basi di legalità, merito e equità. O il  Governo Monti perderebbe la fiducia degli italiani perbene, prima ancora che quella del parlamento. Con questa manovra (fatta necessariamente in estrema urgenza e sulla base imponibile per lo più già nota al fisco per dare certezza alle coperture) si è salvato dal baratro il Paese. Per creare lavoro per i giovani e le donne, per tutelare la persona dei lavoratori (e non più, come in passato, il posto di lavoro) occorre ora una riforma coraggiosa del mercato del lavoro (oggi iniquamente duale), del sistema della formazione, degli ammortizzatori sociali, dei servizi per la conciliazione lavoro-famiglia.

Lo stesso Monti ha annunciato che confida che questa sia stata l’ultima manovra congiunturale e di poter ora occuparsi della crescita con due cantieri già aperti: il primo, quello della riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali, richiede un negoziato con le parti sociali. Il secondo sarà quello delle misure per lo sviluppo, pur nella consapevolezza che per la crescita non basterà quello che possiamo fare noi se non si farà molto di più in sede di Unione Europea. I sacrifici che dovranno fare gli italiani ("impressionanti" secondo la definizione della Merkel) consentono ora al Presidente Monti di chiedere con fermezza misure più coraggiose, solidali e determinate da parte degli altri Paesi europei.

Mi aspetto inoltre che il Presidente del Consiglio riesca ora ad indicare agli italiani la prospettiva che giustifica i sacrifici loro richiesti. Indicare cioè una mission per il Paese, per suscitare speranza e fiducia nel futuro nei cittadini, che si attendono risposte alla loro ansia da precarietà.

Dobbiamo riconquistare la dignità di un grande Paese, guardando al nostro futuro con più ottimismo ed ambizione. Non contando sulla mitica arte italiana dell’arrangiarsi, ma assumendo precisi impegni e facendo seguire agli stessi pochi fatti concreti. Il cambiamento globale in cui anche l’Italia è immersa è ricco di opportunità se la sua classe dirigente sarà capace di gestire il cambiamento e guidare le persone, le imprese, le comunità locali dicendo e facendo poche cose, molto chiare e pratiche, indispensabili per la crescita economica e sociale. Ovvero: assicurare la legalità su tutto il territorio; sostenere chi intraprende e crea ricchezza; premiare il merito e l’eccellenza formativa; ridurre gli apparati burocratici e riqualificare la spesa pubblica; attuare un federalismo fiscale competitivo per coniugare autonomia e responsabilità nei governi locali.

“Se vuoi costruire una barca, non riunire le persone per raccogliere e portare la legna, ma risveglia prima in loro l’amore e l’interesse per il mare”, diceva Antoine de Saint-Exupery.

Per motivare la fiducia e l’impegno degli italiani non è sufficiente spiegare che il loro sacrificio, come ad es. pagare più tasse (raccogliere la legna), serve a risanare i conti pubblici (la barca per uscire dall’emergenza), ma bisogna mostrare loro quale è la meta del viaggio, ovvero la ricaduta benefica che avrà quel sacrificio sulla loro vita e su quella dei loro figli: approdare insieme ad un’Italia più ricca di valori e di sentimenti, con meno disuguaglianze e più opportunità per tutti, un Paese che conservi un ruolo strategico in Europa e nel mondo, come lo ha spesso avuto nella storia, per la sua posizione geografica e  per lo spirito ed il genio delle sue genti. Nulla ci è precluso se tutti noi, ciascuno nel proprio ruolo, sapremo riconquistare autostima e senso di responsabilità, ritrovando la bussola di quel bene comune che è indispensabile per governare ad ogni livello il nostro territorio e le sue immense risorse umane e materiali per lo sviluppo duraturo del nostro Paese.

pubblicata il 20 dicembre 2011

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